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LUIGI DE CINQUE – L’arte può essere fatta da tutti?

Alla fine degli anni ’50 inizia la solennizzazione culturale delle avanguardie storiche, e il nume tutelare sotto il cui nome viene portata avanti questa operazione è Marcel Duchamp. Il mondo dell’arte attuale ha recuperato, sfruttato e manipolato, trasformando in business, ciò che le avanguardie storiche avevano escogitato ingenuamente e in buona fede con intenti opposti. Tuttavia il germe dell’autodenigrazione, della puerilizzazione e della pulsione di morte era già implicito in esse. Il Futurismo è il primo movimento artistico in cui il programma di rifiuto del passato precede le opere. Dada e il Surrealismo sperimentano tutte le possibilità dell’anti-arte. Il Situazionismo, ultimo prodotto dell’avanguardia storica, celebra il canto funebre dell’arte. Il mondo dell’arte, asfittico ed obsoleto, ha come collante l’ammiccamento di chi fra chi fa parte del del suo piccolo campo; l’ostentazione di cinismo tratta con sufficienza i profani, l’autoderisione come corazza contro il dissenso, porta l’opinione pubblica a dire: Se voi non vi prendete sul serio, perché dovremmo farlo noi?

Il controllo è ormai in mano a pochi galleristi di statura planetaria con diritto alla legittimazione e consacrazione di prodotti che solo nominalmente possono essere definite “opere d’arte”, ma in realtà sono feticci artistici. La valorizzazione iperbolica di tali entità è connessa con operazioni mediatiche che trasformano gli artisti in divi dello spettacolo culturale, secondo una notorietà basata sulla firma: non si compra un oggetto ma una marca.

La trasgressione, lo scandalo e l’indignazione di critica e pubblico è una cassa di risonanza che suscita interesse negli organi di informazione.

L’arte può essere fatta da tutti? Per “fare” si intendono azioni minime come sottrarre un oggetto dal suo contesto e introdurlo nel regime estetico, dissolvere l’aspetto fisico dell’opera in un mero flusso comunicativo, delegare agli artigiani l’esecuzione effettiva di un progetto, smaterializzare l’opera dissolvendola in una frase o idea o concetto. Resta quindi scontato il principio che tali operazioni sono artisticamente valide se legittimate da mediatori istituzionali affratellati in lobby. Tutto ciò necessita l’esclusione feroce delle altre produzioni artistiche esistenti. Il risultato non è la creazione di opere, ma di artisti che fanno arte o anti-arte.

Tutti gli artisti possono essere “artisti”. Il mondo dell’arte, spogliato della sua aureola, ammette la speculazione aperta, spudorata e diretta che sembra prendere il posto dello sfruttamento mascherato da illusione estetiche, fervori spirituali e chiacchiere elogiative. Si tratta di trasformare in qualcosa di emozionante, eccitante e seducente ciò che, anche legittimata dalla storia dell’arte come capolavoro, è un oggetto imbalsamato di devozione fanatica meritevole di una visita turistica.

La schedatura dei colori del cielo esemplifica l’idea di un’arte che si identifica completamente con la vita dell’artista e che quindi può anche fare a meno di opere. L’idea populista secondo cui l’arte può essere fatta da tutti mostra allo stesso tempo che l’opera d’arte non è sufficiente a se stessa. Le poetiche, cioè i programmi d’arte non riescono più a colmare questa carenza; tantomeno la critica d’arte ridotta a cronaca o a promozione pubblicitaria. I collezionisti non sono autonomamente in grado di valorizzare ciò che si trova in un sacco di spazzatura, perché chi garantirà la sua trasformazione in opera d’arte?

Qualsiasi cosa può essere qualificata come arte, concreta, astratta o anche soltanto pensata. Che un oggetto trovato o una persona o un paesaggio siano estetici è una affermazione che presuppone una concezione metafisica della bellezza, altrimenti non si va oltre il gusto personale o il consenso sociale.

Tuttavia il gesto dell’appropriazione d’immagini od oggetti, magari apportandovi una piccola modifica, sembra infrangere un cardine dell’arte moderna: l’originalità. Allora il suo posto è preso dalla ripetizione. La trasformazione di una pratica quotidiana modesta in una attività riconoscibile come arte implica la consapevolezza dell’autore di essere artista, come prima condizione del successo.

Ma occorre marcare la differenza tra la società dello spettacolo, che è ancorata alla comunicazione mass-mediatica tradizionale, e il mondo dell’World Wide Web: il numero degli artisti e degli articoli suscettibili di “artistizzazione” è potenzialmente infinito. Si corre il pericolo di affogare in un mare di insulsaggini e futilità in cui tutto si confonde. Una grande occasione per tutti coloro che sono rimasti fuori dal mondo dell’arte istituzionale, ma è anche un grande pericolo, perché nella crescita bulimica di mostre, biennali, seminari, fondazioni, finiscono per l’essere assimilati e confusi proprio con ciò che hanno sempre combattuto pagando con l’isolamento, l’inaridimento, la depressione.

Il populismo culturale sembra avverare gli auspici di Marx, sembra che tutti possano essere artisti, chiunque può diventare un genio, anche i matti. D’altra parte gli artisti sono sempre stati ritenuti i maghi della follia.

L’arte contemporanea, dileggiando se stessa, compie un’operazione di disillusione e di disincanto, beffandosi dei valori estetici e artistici del passato. Tuttavia questa operazione può essere fatta con un accettabile grado di validità una sola volta. Ma mentre con Duchamp il mondo intero attraverso il ready-made diventa un’opera d’arte, gran parte della produzione artistica attuale è arte senza opera: non un artefatto ma un’azione infima, lo spostamento di un oggetto, il cambiamento di un nome, uno sguardo.

L’arte diventa pubblicità di se stessa, secondo Koons non consiste nel fare un quadro ma nel venderlo. E per dirla con Beuys: non ho nulla a che fare con l’arte, e questa è l’unica possibilità per poter fare qualcosa per l’arte. Il successo dell’happening, della performance, dell’installazione e più in generale dell’effetto puramente comunicativo risponde bene a questa esigenza. Ma la tendenza alla produzione distruttiva si scontra con l’aspirazione dell’opera a essere trasmessa alla posterità, per ovvi motivi di investimento.

La rinomanza passa attraverso i critici, le riviste specializzate, i mercanti, le gallerie, i commisari di mostre, i curatori, gli editori, i collezionisti, le fiere, le aste, i musei, i mass-media. Ma mentre pochi anni fa tutti questi soggetti godevano di una bastevole autonomia, oggi vengono attivati dalla lobby finanziaria, che dispone dei loro servigi. Questi meccanismi sono assolutamente gli stessi che consentono il riconoscimento sia degli out-siders che di quelli che nemmeno sanno cosa è arte o di essere artisti. Non ci sono ragioni per cui l’opera di un artista in carriera nell’arte contemporanea sia di per sè stessa differente dalla produzione di uno psicopatico, un dilettante o un primitivo cui formalmente assomigli. I confini del paradigma dell’arte si sono a tal punto allargati da comprendere potenzialmente qualsiasi cosa, vale a dire nulla. Un effetto collaterale investe anche l’arte del passato. Il boom turistico ha condotto a una fruizione estremamente superficiale e frivola delle opere, divenute tutte indiscriminatamente oggetto di una attenzione insipiente e insulsa. Non più il risultato di una scelta individuale motivata da interesse, desiderio o almeno curiosità, ma compito da eseguirsi passivamente perché compreso nel pacchetto turistico. Fotografare e farsi fotografare come grado zero dell’esperienza estetica.

Resta da capire perché ancora esistano nel mondo milioni di artisti, consapevoli o meno di esserlo, che intraprendono una attività così problematica, fonte di scoraggiamento, frustrazione e diseconomia. Arte per guarire se stessi, per passare il tempo o per non impazzire?

Oppure, forse, perché l’arte è l’unico tipo di attività deviante consentita nelle società occidentali!

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